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Call me by your name: l’odissea adolescenziale Queer

Lorenzo La Bella 08/09/2020
Updated 2020/09/08 at 4:45 PM
5 Minuti per la lettura
I miei amici sono soliti dirmi che guardo i film importanti e attuali sempre un paio d’anni dopo che escono, e per silenziarli ho deciso di guardare e recensire Call me by your name una volta per tutte.
E dopo averlo visto (rigorosamente in compagnia) posso affermare che merita il successo planetario e l’Oscar alla Miglior Sceneggiatura Non Originale che ha avuto.

Non ho avuto modo di leggere il romanzo di André Aciman su cui il film è basato, ma posso dire che James Ivory e Luca Guadagnino (entrambi gay e quindi personalmente legati a questa storia) hanno prodotto un film memorabile nell’adattarlo.
Certo, la prima metà in cui Elio (Timothée Chalamet) e Oliver (Armie Hammer) non fanno che guardarsi lasciando crescere la tensione poteva anche durare quaranta minuti anziché un’ora, ma appena la storia d’amore tra i due parte, la seconda metà vi terrà incollati alla sedia. Ma parliamone in dettaglio.

Il protagonista, Elio, è un diciassettenne ebreo italo-franco-americano la cui famiglia di studiosi ospita nella loro villa in Brianza uno studente diverso ogni estate, e ha un rapporto non troppo dinamico con una ragazza locale di nome Marzia e un altro abbastanza complicato con le proprie radici. Guarda caso, è anche il perfetto ritratto di quello che nella comunità LGBT si chiama un twink.
Oliver è un universitario affascinante, libertino, e impulsivo che irradia bi power come una lampada magenta, indaco e blu.
Però questi sono gli Anni Ottanta, ed Elio passa mezzo film a guardare Oliver in attesa di un segnale, e nel frattempo perde la verginità con Marzia.
Finché i due poi non si decidono a confessarsi, e cercano di passare quanto più possibile di ciò che rimane di questa breve estate insieme. Sono imbarazzati, un po’ tragicomici, Elio è nervoso perché non è mai stato con un ragazzo prima, e Oliver soffre ancora in parte di bifobia interiorizzata inculcatagli dal padre retrogrado. Però la loro relazione si sviluppa, si contorce, sboccia in una passione che è a metà fra il sesso e l’amore e che è sicuramente familiare a chiunque si sia trovato a vivere il primo amore senza neanche capire se è tale.
E la cosa tragica è che per Elio è quasi un vero amore…mentre per Oliver, il bisogno di tornare in patria, dove ha una fidanzata on-and-off che lo aspetta, è più impellente. Il tutto si conclude con un addio in lacrime alla stazione, con un visibile rumore di cuori infranti che quasi tutti ci ricordiamo da quell’età.
Elio ha perso una persona che ammirava, con cui sentiva di potersi esprimere liberamente senza confusioni o timori, e i suoi genitori e amici possono fare poco per tirarlo su.

È una storia semplice, naturalista sia nel dialogo che nella fotografia che nelle azioni dei personaggi, e proprio per questo potente. Sembra di poter sbirciare nella vita privata di un ragazzo vero, reale, ed è proprio questa la magia con cui Guadagnino riesce a farci commuovere.

Forse non è la più politica delle storie queer, ma è la più tipica, quella con cui ogni adolescente, che sia cishet o LGBT, può identificarsi, ed è una delle poche rappresentazioni positive di personaggi bisessuali nel cinema.
Uno di quei film che ha aiutato migliaia di persone a fare coming out, e migliaia di altre ad accettare i propri amici, parenti e persone care per quello che sono, e a mio parere dobbiamo essere orgogliosi di avere un film del genere nel panorama del cinema italiano.

di Lorenzo La Bella

TRATTO DA MAGAZINE INFORMARE N°209
SETTEMBRE 2020

 

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