Black History Month: il mese della rinascita
In un’America divisa a metà, nel 1926 dalla collaborazione tra Carter Woodson e l’ASLAH nasce la ricorrenza che celebra la Black History.
La volontà di istituire una settimana – che poi, nel 1976 il presidente Gerard Ford estenderà ad un mese intero – dedicata alla cultura afroamericana, nasce secondo Woodson per ricordare le radici e le tradizioni degli afroamericani, come affermerà in un suo saggio: «Se una razza non ha una storia, non ha delle tradizioni utili, essa diventa un fattore insignificante nel pensiero del mondo, e si trova in pericolo di essere sterminata.»
Il Black History Month celebra non solo la cultura, ma anche le persone e gli eventi della diaspora africana, al fine di permettere al popolo americano di «cogliere l’opportunità e le doti troppo spesso trascurate degli afroamericani e il loro contributo all’interno della storia degli Stati Uniti», affermerà il presidente Ford nel suo discorso del ’76, aggiungendo poi «Black History is American History».
Il topic di quest’anno sarà il diritto alla salute e al benessere dei cittadini afroamericani, accedendo il dibattito anche sul tema delle disparità di accesso ai servizi sanitari primari.
Ho avuto il piacere di sentire in merito al tema Luigi Musella, docente universitario di storia contemporanea presso la Federico II di Napoli.
Il Black History Month è un’osservanza che mette in rilievo anche varie problematiche attuali, come ad esempio il fenomeno migratorio. Che correlazioni individua tra la diaspora africana e le moderne migrazioni?
«È ovvio che ci sono differenze. Il contesto storico e le dinamiche stesse delle migrazioni rispondono a equilibri globali diversi. Tuttavia, un comune elemento resta il trasferimento di persone da paesi più deboli a paesi materialmente avanzati. Un altro elemento comune è quello del bisogno di forza lavoro per il capitalismo occidentale».
La volontà di valorizzare il contributo degli afroamericani nella storia degli Stati Uniti è probabilmente legata alla necessità di combattere la visione colonizzata della storia. In che modo questo etnocentrismo ci ha influenzati nel corso dei secoli?
«Qualunque narrazione risponde sempre a un paradigma. Di volta in volta, di uno stesso fenomeno si può dare una visione. È evidente che ritenere il mondo occidentale al centro di una visione globale non solo ha condizionato la storia dei ceti subalterni, ma ha condizionato la stessa storia dell’Occidente.
I fatti e le date sono stati selezionati e differenziati proprio in seguito a una scelta occidentalista. Forse, oggi, proprio grazie alla globalizzazione, si rilegge il passato per capire il presente e questo ci sta portando a rivedere le dinamiche nord-sud e ovest-est. Ribadisco, però, che non è tanto questione relativa a cosa si studia, ma a come si studia».
Altro tema caldo, soprattutto in Italia, è quello dello Ius soli. In una società così multietnica e globalizzata, si può ancora parlare di diritto di sangue?
«La globalizzazione ci obbligherà a divenire multietnici. Nei fatti questo già sta avvenendo, al di là di come noi possiamo pensarla».
Il B.H.M. è stato spesso detrattato, anche dagli stessi afroamericani. Una festività annuale riconosciuta è una vittoria o una manifestazione di razzismo?
«Questo dipende. Nei fatti i processi devono passare attraverso una profonda educazione della società».
In che modo pensa si sia evoluto il razzismo e l’identità afro nel corso dei secoli, soprattutto con la risonanza globale dei movimenti Black Lives Matter?
«Il razzismo è un sentire che si differenzia territorialmente. In generale è paura della diversità, è un provincialismo dovuto alla chiusura dei confini mentali».
Il tema su cui verterà la ricorrenza quest’anno è quello della salute degli afroamericani. Secondo lei in che campo si dovrebbe agire per garantire le tutele dei diritti alla salute di ogni cittadino?
«Per quanto riguarda la salute, penso che il nostro paese avrebbe bisogno di una riforma culturale e amministrativa strutturale. Le idee servono, ma se non c’è un sentimento diffuso, anche le riforme possono poco. La Sanità nel nostro paese tende a non garantire la salute dei più poveri e dei più deboli di cui fanno parte anche i migranti».