Nicola De Dominicis è l’autore di due emozionanti libri: “Una dolcezza inquieta” e “L’estraneo perfetto”. Il primo è un libro di sei racconti che ci spingono a riflettere su quanto sia potente la forza delle parole, affrontato temi importanti: arte, politica, cultura, amore. “L’estraneo perfetto”, invece, è una raccolta lirica intensa e variegata. Dove Nicola usa un linguaggio essenziale trascinandoci in un viaggio, sospeso «fra passato e futuro», alla riscoperta del Sé e alla scoperta del mondo. Dentro ogni pagina si intuisce la sua passione verso l’arte di scrivere; ogni riga, ogni strofa è lì pronta a regalarci indelebili emozioni. Ci dà coraggio, ma per lo più ci fa scoprire la parte intima di ognuno di noi. In questa piacevole intervista conosciamo meglio Nicola, e com’è nato il suo bisogno di scrivere.
Ciao Nicola, e grazie per aver dedicato il tuo tempo a questa intervista. Iniziamo subito con la prima domanda: com’è nato il desiderio di scrivere?
«Io lo definisco un bisogno, un bisogno di espressione, di dare voce e forma all’universo interiore che ognuno di noi porta dentro di sé. Perché credo che se questo universo di emozioni, pensieri, immagini e ricordi non trova poi una sua espressione per vivere fuori di noi, allora, morendo lui, moriamo anche noi, ci riduciamo ad essere creature del fare, dei mille impegni, ma non del sentire. In altre parole, esprimere me stesso attraverso la scrittura è l’unico modo per me di continuare a esistere davvero. E in fondo il creato stesso nasce ed esiste solo quando Dio si fa parola, verbo, appunto espressione».
È qualcosa che facevi fin da bambino?
«Sì. Il tema di italiano per me era un gioco. Mentre i miei compagni restavano davanti al foglio bianco quasi spaesati, per me quel foglio era l’inizio di un mondo dove non mi perdevo mai, ma ne seguivo tranquillo le strade che io stesso andavo tracciando. Ricordo un film, Genio ribelle. Lei, innamorata del protagonista appunto geniale, gli chiede come faccia a risolvere equazioni matematiche impossibili anche per i migliori studenti universitari, e lui per tutto risposta gli dice di pensare a un pianoforte. Ebbene, come Mozart e Beethoven davanti a un pianoforte sapevano sempre suonare per naturale inclinazione, così lui riesce sempre “a suonare” in un compito di chimica per la stessa naturale inclinazione. Così per me, davanti a un foglio bianco suono sempre, e posso solo sperare che la mia musica piaccia, ma di certo non resterò mai in silenzio di inchiostro».
Hai pubblicato due libri: il primo è una raccolta di racconti e l’altra di poesie. Secondo te, come si capisce quale forma d’arte si vuole perseguire?
«Non lo si capisce. È come scegliere di essere onnivori o vegani. Non lo si capisce in modo razionale, non c’è una scelta ponderata, ma soltanto, credo, un naturale bisogno o rifiuto che non si può razionalizzare, o per lo meno le razionalizzazioni arrivano dopo come conseguenza e giustificazione. In sostanza è sempre quel naturale bisogno di espressione che mi spinge a scrivere in prosa o poesia, e infatti non mi sono mai trovato a scrivere chiedendomi prima “scrivo in prosa o poesia?”. La penna corre, le strade del verso o della trama si formano da sé, e il bambino di prima le segue».
Parlando della tua silloge poetica, “L’estraneo perfetto”, qual è la poesia a cui ti senti più legato? E perché?
«“L’uomo sbagliato”. La definisco la mia carta di identità. In quei versi mi presento, mi metto a nudo e sfido “i cari signori ortodossi che tutto sanno”, ossia uomini e donne dalla vita perfetta, almeno in apparenza, e sempre pronti a giudicare chi al contrario sembra dover sempre arrancare in una vita sbagliata, bistrattata, ridotta più a sopravvivenza che a vera vita. Io sono l’uomo sbagliato come tanti, e per quei tanti vorrei essere una voce, uno specchio in cui trovarsi riflessi, almeno ci provo, anche se poi, forse, siamo un po’ tutti “uomini sbagliati”. Charlie Brown insegna».
Chiudo con una domanda: se avevi un sogno nel cassetto, pensi di averlo raggiunto?
«Ci sto lavorando. Il mio sogno è quello di poter vivere la scrittura come fusione perfetta di lavoro e passione. Un lavoro che non stanca mai, una passione che paga le bollette. Non è facile, è forse non ci riuscirò mai, ma qualche soddisfazione ogni tanto arriva, e di certo questi primi due libri, Una dolcezza inquieta e L’estraneo perfetto, sono due tappe fondamentali del mio sogno. In conclusione, quindi, non ho raggiunto il mio sogno, ma sono sulla sua strada».
di Grazia Sposito