Al 30 aprile 2019, in Italia, erano 2.659 le donne detenute, a fronte di una popolazione ristretta che aveva superato di 439 detenuti la soglia dei 60 mila.
Sul territorio nazionale, sono solo 4 gli istituti esclusivamente femminili: le due case circondariali di Pozzuoli (NA) e di Rebibbia Femminile a Roma, e le due case di reclusione di Venezia Giudecca e di Trani. Nel complesso, dunque, le donne rappresentano il 4,4% dei ristretti in Italia, configurandosi come popolazione marginale all’interno di un mondo prevalentemente maschile. Purtroppo però, a numeri bassi, spesso corrisponde una bassa attenzione. In uno degli ultimi report di “Antigone”, associazione italiana che si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario, la Casa Circondariale di Pozzuoli è una delle poche strutture a poter vantare buone condizioni di vivibilità per le detenute.
Operante da soli 8 mesi all’interno del penitenziario, l’associazione Antigone lavora nel carcere di Pozzuoli con uno Sportello a tutela dei Diritti Umani.
«Siamo in struttura una volta a settimana, solitamente il sabato pomeriggio, e seguiamo diverse richieste: assistenza fiscale e medica, ascolto psicologico; cerchiamo di semplificare alcuni quesiti giuridici che riguardano la posizione delle detenute», ha dichiarato Luigi Romano, Presidente di Antigone Campania.
«Il lavoro è frutto di un accordo con il Provveditorato dell’Amministrazione della Campania, il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Napoli Federico II e il Corso di Dottorato in “Diritti Umani. Storia, teoria, prassi”». Il coinvolgimento degli studenti universitari, come si deduce, è pensato per sensibilizzare la (futura) società civile sul tema del diritto penale minimo, della difesa degli ultimi e alle problematiche che colpiscono l’esperienza detentiva nel nostro Paese.
Un’equipe, quella di Antigone, non solo di giuristi, ma che punta a costituire anche una squadra medica specializzata, per far fronte alle numerose richieste d’aiuto per problematiche di ordine clinico. «Il nostro sistema sanitario è a pezzi. In moltissimi rimangono schiacciati dalla mancanza di un reddito per soddisfare i propri bisogni essenziali. Ci confrontiamo con detenute ammalate di tumore che attendono di fare nuove analisi da un anno o, addirittura, con casi di HIV per nulla monitorati».
Difficili condizioni di esistenza come queste riflettono la grande crisi della macchina detentiva italiana, le cui risorse vengono investite quasi esclusivamente nel settore securitario. La costruzione di nuove carceri o di sistemi di monitoraggio all’avanguardia, spesso e volentieri, vengono anteposte alle iniziative funzionali per la rieducazione delle detenute.
«È una scelta politica, gli ultimi bilanci del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria chiariscono in modo lampante questa condizione: solo l’8% circa delle risorse del bilancio vengono destinate all’area trattamentale, addetta alla funzione rieducativa», commenta Luigi Romano. «Le risorse più importanti servono ad alimentare la contenzione e la sicurezza. Lo smantellamento dello Stato di diritto, in favore di un sistema securitario fondato sulla paura, elimina in concreto qualsiasi intervento organico finalizzato alla risocializzazione del reo».
La possibilità per la detenuta di essere reinserita all’interno della società, dunque, è affidata alle piccole e medie cooperative purtroppo presenti solo in alcune strutture. Segmenti fondamentali del terzo settore, i quali tentano di valorizzare e premiare le esperienze virtuose di detenzione, assolvendo così la funzione riabilitativa dell’art. 27 Cost., che l’intera macchina carceraria assolve solo nell’iperuranio.
di Carmelina D’aniello
TRATTO DA MAGAZINE INFORMARE N°197
SETTEMBRE 2019