Con “Adorazione” Alice Urciuolo scava nei rapporti sentimentali
Adorazione, spesso, non è altro da violenza, bensì una sua degenerazione. Lo dimostra Alice Urciuolo, tra le autrici di Skam Italia, raccontando nel suo romanzo d’esordio tutta la complessità dei rapporti sentimentali di un gruppo di adolescenti di provincia. Districandosi tra logori stereotipi e pesanti aspettative, nonostante la coralità del romanzo, i protagonisti intraprendono un viaggio in solitaria nella loro identità, collezionando inevitabilmente ferite e delusioni, accanto a sperati successi. Elena, morta l’estate prima, ed Enrico, il fidanzato che l’ha uccisa, vivono nei protagonisti come un monito perenne sulle loro scelte. Una storia che racconta con assoluta lucidità il mondo adolescenziale e il suo universo di morte e di vita.
Alice, com’è nato Adorazione?
«Adorazione nasce dall’incontro con il mio editor, che da subito ha creduto in me spingendomi a creare qualcosa di più complesso dei racconti che già scrivevo. All’inizio avevo solo i personaggi di Diana e Vera, che volevo raccontare per i loro 16 anni. Volevo parlare della provincia e dei miei luoghi, così ho ambientato la storia nell’Agro pontino, dove sono nata e cresciuta.
Solo scrivendo ho capito il valore simbolico che quei luoghi avevano per la trama: tutta la nostra società ha ancora i retaggi di una cultura patriarcale e se vogliamo anche fascista, ma nei luoghi di fondazione, come Pontinia, il passato fascista non si può dimenticare, perché i posti stessi lo ricordano. C’era quindi un legame tematico giustissimo con la mia storia, che non potevo trascurare. Mentre scrivevo mi tornavano in mente tanti ricordi di quando vivevo lì: in particolare un evento di cronaca, una ragazzina di 16 anni uccisa proprio a due passi da casa mia.
Così ho creato Elena ed Enrico e mi sono accorta che la loro relazione era legata con un filo tematico a tutte le altre relazioni del romanzo – non solo amorose – che è quello dell’adorazione. Stavo indagando le relazioni tossiche, la cultura del possesso, le dinamiche di potere tra uomini e donne e la loro storia rappresentava l’estrema conseguenza di un sostrato culturale presente in tutte le relazioni del romanzo».
I protagonisti vivono quasi un certo timore di finire come Elena ed Enrico?
«Sì. Entrambi, infatti, esistono solo nei ricordi, non prendono la parola, perché volevo che i protagonisti si rendessero conto da soli che potevano essere loro stessi così. Come Giorgio, che crede di essere molto diverso da Enrico, e invece poi scopre il contrario. La cosa però importante è che non c’è sempre una divisone tra donne vittime e uomini carnefici, ma anzi i personaggi rivestono entrambi i ruoli e a fasi alterne, come ad esempio Diana».
Durante la storia i personaggi cercano continuamente una stabilità tra realtà e ambizioni, che raramente coincidono: devono farei i conti con modelli preconfezionati e con un prototipo di mascolinità tossica. Ti ci ritrovi?
«Sì, i protagonisti convivono con un codice comportamentale che è stato loro imposto alla nascita. Le ragazze si ritrovano con una vita già tracciata davanti a sé e tentano di rompere gli schemi. I ragazzi devono aderire all’immagine di uomo forte che gli viene proposta, di cui presto ne sperimentano le inadeguatezze, anche al livello emotivo. Tutti faranno quindi un percorso per abbandonare ciò che la società ha loro cucito addosso, per trovare la propria dimensione».
Altra protagonista di tutte le relazioni (familiari, amichevoli, sentimentali) è l’incomunicabilità, che crea la maggior parte dei problemi…
«Assolutamente. I personaggi pensano tanto, ma dicono poco e spesso anche cose diverse da ciò che vorrebbero. Questo è dovuto al disagio di essere cresciuto in una comunità piccola che ha la tendenza a non parlare di certe cose: per vergogna, perché non si hanno gli strumenti per affrontare alcuni temi, come il sesso, i sentimenti, il lutto. I ragazzi trovano da soli le risposte, perché è difficile parlarne sia con i genitori che con i coetanei».
Per creare un’opera così realistica, ti ha aiutato la tua esperienza di sceneggiatrice?
«Molto. Lavorando su Skam Italia ho acquisito un metodo di lavoro che prevedeva tanta ricerca: siamo andati nei licei, abbiamo intervistato un sacco di ragazzi, per conoscere le loro abitudini, i loro pensieri e restituire una verità. Questo approccio mi è rimasto. Volevo creare un ritratto quanto più verosimile di quel piccolo angolo di mondo, non solo delle situazioni ma anche dei dialoghi e della lingua. Ecco perché ho lavorato molto sulle parole che i personaggi avrebbero usato, ricreando il modo di parlare degli adolescenti».
di Lucrezia Varrella