La parola EBREO ha la sua sorgente nella parola latina hebreus, in quella greca hebraiòs, ma soprattutto nell’aramaico ebhrai, che corrisponde all’ebraico ibhri, che significa letteralmente “che viene dall’altra parte (del fiume)”. Questo é. Si é così. Anche se, tradizionalmente, si fa risalire la parola “ebreo” ad uno dei patriarchi postdiluviani, tal EBER.
prospettiva. Ed incomincio il cammino.E dopo alcune vicissitudini ed avvenimenti Abramo fu colui per il quale si usò per la prima volta la parola “ebreo” perché attraversò il fiume Eufrate per andare dapprima verso Carran
(oggi Harran, città turca ai confini con la Siria), e poi nella terra di Canaan, la terra del latte e del miele: “Abhram, l’ebhrai quello che viene dall’altra parte dei fiumi” così lo indicarono.
C’erano degli uomini a ristorare in una piccola locanda di Carran, lui passò ed attirò la loro attenzione. Si affacciarono fuori dal locale ed il primo a destra chiese agli altri due “Chi
é quello?” Il più pettegolo si precipitó nella risposta ma non gli veniva il nome “Ab…Abaco…no..” con il capo prima chino come se quel nome si trovasse sotto le pietre e poi rivolgendosi al cielo come se aspettasse il suggerimento di un volabile “No…
no… Abra…” l’altro in aiuto “..cadabra!”, stizzito “No… no.. aspetta c’è l’ho sulla punta della lingua …. Abba… Abba…” quasi sicuro (ma quasi) pronunciò “Abbaia!?” e ancora l’altro “No,
quello é il suo cane. Attento che te la morde la tua lingua sudata.. Lui é quello che viene dall’altra parte del fiume, l’Ebhrai”.Attraversare un fiume a piedi, con una scafa, una zattera o con un ponte (anche senza nome) é sempre una sfida al destino, un’avventura di pochi minuti o di un giorno ma é pur sempre un avventura e un sacrificio. Basti pensare alla leggenda della regina Abla Pokou, fondatrice della Costa d’Avorio, che pone il mito del suo popolo proprio nell’attraversamento di un fiume, il fiume Comoé, portando la gente Baoulé dal Ghana nelle nuove terre:
dovette sacrificare al Dio del fiume il suo unico figlio gettandolo negli abissi delle acque pluviali e quando gli riferirono “Baoulé” ovvero “Il bimbo é morto” gli ippopotami commossi, uno a fianco dell’altro, gli costruirono un ponte ed il suo popolo, da quel momento i Baoulé, passarono: attraversarono il fiume.
Nel libro della Genesi dopo una sfilza di nomi e un rendiconto di tutti gli anni vissuti da tutti i discendenti di ADAMO (e tra questi anche il citato Eber), arriviamo finalmente al “grande patriarca delle tre religioni monoteiste” (ebraismo, cristianesimo, islamismo) ABRAMO, figlio di Terach, fratello di Nacor e di Aran, marito della sorellastra Sara (stesso padre e madre diversa) da cui ebbe ISACCO e di Agar, madre di ISMAEL. Se si dice Abramo non si sbaglia: è una garanzia per tutte le religioni. Il “Dio di Abramo” è l’identità comune.
Il patriarca viveva ad UR, una città mesopotamica, situata vicino alla foce dell’Eufrate. Il Signore, secondo la Bibbia, gli parlò e gli comandò di prendere la famiglia e di partire per la terra promessa, una terra di latte e miele. “Abramo avrai una numerosa discendenza, hai la mia benedizione per tutti i popoli della terra ed avrai una terra. Ti prometto una terra per i tuoi discendenti”. Abramo, checchè se ne dica, era incline allo scetticismo, non lesinava la presa in giro del padre Terach che quotidianamente pregava le statue. “Signore, ho settantacinque anni e mia moglie Sara è sterile”. Era pastore, commerciante, pratico, ma a settantacinque anni si fa quello che non si fa a venticinque: un bisogno irrefrenabile di credere ad una parola, poco conta se non è quella di un altro pastore di animali ma è quella di un dio. E’ una questione di nuove abitudini e la scommessa di una nuova
prospettiva. Ed incomincio il cammino.
E dopo alcune vicissitudini ed avvenimenti Abramo fu colui per il quale si usò per la prima volta la parola “ebreo” perché attraversò il fiume Eufrate per andare dapprima verso Carran
(oggi Harran, città turca ai confini con la Siria), e poi nella terra di Canaan, la terra del latte e del miele: “Abhram, l’ebhrai quello che viene dall’altra parte dei fiumi” così lo indicarono.
C’erano degli uomini a ristorare in una piccola locanda di Carran, lui passò ed attirò la loro attenzione. Si affacciarono fuori dal locale ed il primo a destra chiese agli altri due “Chi
é quello?” Il più pettegolo si precipitó nella risposta ma non gli veniva il nome “Ab…Abaco…no..” con il capo prima chino come se quel nome si trovasse sotto le pietre e poi rivolgendosi al cielo come se aspettasse il suggerimento di un volabile “No…
no… Abra…” l’altro in aiuto “..cadabra!”, stizzito “No… no.. aspetta c’è l’ho sulla punta della lingua …. Abba… Abba…” quasi sicuro (ma quasi) pronunciò “Abbaia!?” e ancora l’altro “No,
quello é il suo cane. Attento che te la morde la tua lingua sudata.. Lui é quello che viene dall’altra parte del fiume, l’Ebhrai”.
Si sa che nei piccoli paesi dove si conoscono tutti si é in uso di indicare un nuovo arrivato nella comunità, un forestiero, di passaggio per pochi mesi, qualche settimana o per tutta la vita, con l’aggettivo della provenienza: il mondragonese, il casalese, l’oggionese, il napoletano, il capuano, il minturnese, il procidano, il folignate…. Non è mettere le distanza ma dare una grammatica alla convivenza sociale. A Spoleto il folignate ha le sue idee e il suo parlare, come il lecchese a Bergamo. Sapendo l’origine che ci svela l’epiteto toponomico quelli del luogo sanno come comportarsi. Lo inquadrano, lo spiegano e lo rivelano agli altri del paese ed ogni dialogo e parola detta é più compresa.
Quell’aggettivo, per le regole della grammatica, diventa un sostantivo e sparisce solo con il tempo ed in pochissimi casi, casi miracolosi. Miracolosi. Ma forse mai. Anche se ti sei sposato una del posto ed i tuoi figli sono nati nel paese ci sarà sempre qualcuno che prima o poi dirà “Tu sei il figlio del maranese” (Marano di Napoli ndr). Abramo é l’ebreo, chi che viene dall’altra parte del fiume, ed i suoi discendenti sono ebrei, quelli che vengono dall’altra parte.
Vi sono delle tesi, ma poco conta, secondo cui la parola può anche significare il “proveniente dalla parte opposta”, e quindi “essere straniero”. Che ironia ed amarezza nella storia del popolo ebraico.
Castel Volturno era un piccolo paese alle foci del fiume Volturno che dal Monte Matese parte si buttava qui nel Tirreno. Il fiume divideva il territorio in due parti ed era unito da un ponte che garantiva continuità alla S.S. DOMITIANA, il ponte non ebbe mai la dignità di un nome ma fece bene il suo lavoro dal dopoguerra ad oggi. Il paese era sulla sponda sinistra del fiume dove vi era il castello ed il borgo, quindi chi attraversava il fiume erano di solito quelli dei casolari della destra Volturno e noi li chiamavano “Chilli da chill’atte” (trad. “Quelli dell’altra parte del fiume”) e non sapevamo che erano ebhrai (ebrei) aramaicamente parlando.
Castel Volturno si pronunciava tutto attaccato ma si scriveva staccato, una regola grammaticale che evidenzia la differenza tra quello che si dice e quello che si scrive ma nella realtà vi era un ponte senza nome che univa il paese ed un castello ad un fiume.
La zona a destra del fiume era paludosa e piena di acquitrini, buona per la sosta delle bufale, animali negri importati dall’Africa dai Romani, per la selvaggina e per la malaria. I luoghi avevano nomi in cui l’acqua era il codice genetico imprescindibile: Lavapiatti (o lagopiatto), Bagnara, Pescopagano.
Quando in paese arrivava “uno di quell’altra parte del fiume” c’era un moto d’animo misto di commozione, speranza e commiserazione: “Chilli da chill’atte” si esclamava e poi un sospiro. “Da dove vieni ora?” “Ora vengo da chi l’atte e mo me ne vaco (vado) a chi l’atte”
Attraversare un fiume a piedi, con una scafa, una zattera o con un ponte (anche senza nome) é sempre una sfida al destino, un’avventura di pochi minuti o di un giorno ma é pur sempre un avventura e un sacrificio. Basti pensare alla leggenda della regina Abla Pokou, fondatrice della Costa d’Avorio, che pone il mito del suo popolo proprio nell’attraversamento di un fiume, il fiume Comoé, portando la gente Baoulé dal Ghana nelle nuove terre:
dovette sacrificare al Dio del fiume il suo unico figlio gettandolo negli abissi delle acque pluviali e quando gli riferirono “Baoulé” ovvero “Il bimbo é morto” gli ippopotami commossi, uno a fianco dell’altro, gli costruirono un ponte ed il suo popolo, da quel momento i Baoulé, passarono: attraversarono il fiume.
Poi i tempi a Castel Volturno cambiarono e durante lo sviluppo edilizio e turistico degli anni ’60, ’70 e 80, erano quelli del paese che andavano dall’altra parte a “Destra Volturno” per il lavoro nei supermarket, nei lidi balneari, nelle discoteche. Ma non solo dal paese castellano, da tutta la provincia di Caserta e Napoli (Aversa, Marano, Napoli, Qualiano, Casalnuovo, Caserta, Casal di Principe).
E “Chilli da Chill’atte” (trad. “Quelli dell’altra parte del fiume”) divennero anche gli altri. Tutti – anche ghanesi e ivoriani dagli anni ’90 e come è amara ed ironica la storia, senegalesi, nigeriani, iraniani, regine, principi, operai, commercialisti e latitanti – e in tutti
i modi – alla meglio, con sotterfugi e con perizia – attraversavano il fiume Volturno, chi lo attraversava da destra verso sinistra in direzione Mondragone e chi lo attraversava da sinistra a destra in direzione Pozzuoli con un ponte senza nome. Fummo tutti ebrei e nessuno ce lo disse.
di Vincenzo Russo Traetto