41-bis sì, 41-bis no, 41-bis forse. È più o meno questo il dibattito che si sta consumando attualmente in Italia. Un dibattito figlio delle mobilitazioni – invero, moltissime – a sostegno dell’anarchico Alfredo Cospito, dapprima detenuto nel carcere di massima sicurezza di Sassari e successivamente trasferito nella struttura di Opera. Ma che cos’è realmente il “regime di carcere duro?”
Questo particolare regime carcerario non è innanzitutto una legge a sé: esso fa parte della così detta legge Gozzini, dal nome del suo creatore Mario Gozzini, fu approvata nel 1986. Ci appare quanto meno necessario operare un inquadramento storico della situazione che viveva l’Italia in quegli anni: erano gli anni degli attentati di Mafia, di lì a poco tempo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sarebbero stati brutalmente assassinati, sarebbe poi seguita la così detta e per alcuni presunta trattativa Stato-Mafia, l’arresto di Totò Riina. Erano insomma anni non solo complessi, erano anni in cui lo Stato necessitava di nuovi strumenti per combattere la Mafia.
Ma che cosa comporta quindi, a livello pratico, il regime di 41-bis?
Le restrizioni, le particolarità, le motivazioni
L’obiettivo primario del regime di 41-bis è quello di “isolare” il detenuto: costui deve essere messo in condizione di non nuocere ulteriormente, di non far pervenire ordini o direttive all’esterno e di non dirigere i lavori del proprio gruppo, della propria cosca al di fuori della struttura carceraria. Non è un caso che diversi appartenenti di spicco alla “Cupola” di Cosa Nostra, così come anche Paolo Di Lauro e gran parte della sua famiglia siano stati o siano tutt’oro sottoposti a questo istituto così restrittivo.
É corretto specificare che il regime carcerario di cui stiamo parlando non solo era nato come una misura provvisoria, ma ha subito diverse modifiche nel corso degli anni, una a seguito dei brutali massacri di Capaci e via D’Amelio, un’altra nel 2002.
Le caratteristiche nel dettaglio
Nel dettaglio le caratteristiche del 41-bis sono le seguenti, anche se non è detto che tutte queste misure vengano applicate contemporaneamente: è previsto innanzitutto l’isolamento nei confronti degli altri detenuti, l’internato viene situato in una cella di detenzione singola e non ha accesso a spazi comuni all’interno della struttura ove è trattenuto, l’ora d’aria avviene anch’essa in isolamento ed è limitata a due ore, c’è un reparto speciale del corpo penitenziario che ha costantemente sotto sorveglianza il detenuto, particolare degno di nota è che anche queste componenti del personale della struttura non hanno alcun contatto con i propri colleghi all’interno del penitenziario.
Anche i colloqui con i familiari hanno durata e frequenza limitata: uno al mese, della durata massima di un’ora, sotto costante osservazione del personale di cui sopra e con un vetro divisorio blindato. Inutile dire che ci sono forti limitazioni anche per quanto concerne libri, quaderni e più in generale per quanto riguarda gli oggetti che si possono ricevere dall’esterno del penitenziario. In casi più che estremi è prevista l’esclusione della rappresentanza del detenuto dalla struttura penitenziaria stessa.
A leggerli tutti i dettagli relativi al regime di carcere duro fanno davvero accapponare la pelle, ma quali sono i reati per i quali è applicabile – o quanto meno richiedibile – questo regime così restrittivo? La risposta è presto servita: reati che hanno a che fare con la Mafia o con organizzazioni terroristiche, reati inerenti alla diffusione di pedopornografia o reati ascrivibili all’estorsione, al ricatto, alla violenza psicologica su larga scala. Non è un caso infatti che molti degli internati al 41-bis appartengano a grandi organizzazioni criminali.
Critiche e controversie, il 41-bis come tortura
Non mancano tuttavia le così dette voci “contrarie” dinanzi ad un provvedimento così controverso: le piazze delle ultime settimane in sostegno allo sciopero della fame di Alfredo Cospito ci raccontano qualcosa di più di una semplice mobilitazione: c’è una parte di paese – maggioritaria o meno, ha poca importanza – che pensa che il 41-bis sia un regime carcerario disumanizzante e praticamente ascrivibile alla tortura.
«La possibilità della morte di Cospito in custodia dello Stato è drammatica, soprattutto alla luce delle condizioni detentive a cui è attualmente sottoposto, che prevedono isolamento prolungato ed escludono ogni contatto umano significativo. La pena, secondo il dettame costituzionale, non deve mai essere contraria al senso di umanità», questo è l’estrapolato di una lettera che le organizzazioni per i diritti umani Amnesty International, A buon Diritto e Antigone hanno indirizzato al ministro della giustizia Carlo Nordio.
Tra garantisti e “ipotesi vendetta”
Il dibattito nelle ultime settimane ha avuto modo di allargare la propria lente di analisi: dal singolo caso si è riusciti a mettere in discussione il regime del 41-bis stesso. Ma perché? Alcune persone sono convinte che il così detto regime di carcere duro non sia un provvedimento figlio di uno Stato che chiede giustizia, bensì di uno Stato che chiede vendetta: è quanto affermano alcuni osservatori asserendo che nessun cartello criminale sia mai capitolato a causa dell’incarcerazione sotto 41-bis di uno dei suoi quadri.
I più garantisti pensano che il 41-bis non debba essere applicato a nessuno, in quanto questo particolare insieme di norme repressive sarebbe una vera e propria violenza legalizzata nelle mani dello Stato e dei suoi ministri. Il punto di queste critiche è sostanzialmente uno e ripercorre in realtà l’ideale originario di chi ha inventato la norma relativa al carcere duro, Mario Gozzini: provare a concepire il periodo di detenzione come un processo di rieducazione e non di sola repressione, uno Stato che fa giustizia e non vendetta, appunto.
L’Italia è uno dei pochi paesi in Occidente a contemplare un regime carcerario così crudo come può esserlo il 41-bis: basti pensare che in Norvegia il massimo della pena che può essere inflitta ad un detenuto è di 21 anni ed anche in questo caso le strutture penitenziarie non somigliano a delle fortezze in cui perdere i propri diritti di cittadino, ma anzi appaiono – o quanto meno è così che viene raccontato – come dei luoghi in cui acquisire gli strumenti per essere poi reintegrati nel mondo esterno.
La possibilità di una svolta: un sistema carcerario umano
Provando ad avviarci alle conclusioni, le mobilitazioni delle ultime settimane, la presa di posizione forte non soltanto di movimenti e associazioni ma anche di parlamentari ed ex parlamentari – primo fra tutti, Luigi Manconi, storica figura della Prima Repubblica – rappresentano forse l’occasione per rivedere il sistema carcerario italiano? Sono tantissimi i rapporti di grandi organizzazioni internazionali che parlano delle nostre carceri come tra le più sovraffollate d’Europa e dove il tasso di recidività di chi esce da una di esse è tra i più alti.
È forse necessario parlare maggiormente di politiche attive sul lavoro, politiche sociali, riqualificazione delle periferie, progetti di reinserimento e più in generali di altri strumenti più costruttivi e meno repressivi? Considerare prioritario prevenire l’utilizzo dello strumento carcerario come extrema ratio nel paese dove si urla al fine pena mai, lasciandosi forse troppo spesso trasportare dal tifo da stadio dei social? È una domanda che lasciamo aperta a chi leggerà…