Il 25 aprile del 1945, a Milano, Il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia annunciava l’insurrezione generale di tutte le città e i paesi ancora schiacciati dalla la coltre ferrigna dell’occupazione tedesca.
La voce di Sandro Pertini, incitava i cittadini di quell’Italia smembrata ad unirsi in un solo corpo, a dispetto di qualunque opposizione ideologica o politica, accantonando ogni distanza sociale, dai veterani ai partigiani, per cacciare l’invasore straniero e ricominciare la costruzione dell’Italia in nome della libertà.
Per i più agili di memoria quelle voci riecheggiano ancora sopra i tetti di Milano e arrivano in tutto il Paese, anche in quel Sud che nel 1945 era già sgomberato dai nazifascisti.
Per molti altri, invece, forse la maggioranza, la Liberazione è una ricorrenza comandata, cristallizzata in un tempo lontano, asettico, fatto di guerre e dolori che non saranno mai più conosciuti e dunque, alle volte, è anche lecito dimenticare. Che la Liberazione sia quindi equiparata ad un ponte nel calendario scolastico, che troppo spesso sia del tutto ignorata da giovani e adulti, e che la stessa Resistenza partigiana sia considerata una guerra acerba dei comunisti contro i fascismi dilaganti in Europa, è un grave deficit insito nella scarsa coscienza collettiva della modernità.
Eppure, la letteratura della seconda metà del Novecento italiano è pregna di testimonianze dirette, di parole, di strazi e di speranze, di lettere mai più tornate dal fronte, di ricordi di chi ha combattuto malvolentieri una guerra che neanche conosceva e di chi invece, per il richiamo di un ideale, ha rischiato la giovane vita per combattere nelle fila partigiane, sfiorando consapevolmente la morte giorno dopo giorno.
Uno dei simboli di questo mondo dimenticato è Nuto Revelli, scrittore e testimone consapevole della Seconda Guerra.
Uno dei simboli di questo mondo dimenticato è Nuto Revelli, scrittore e testimone consapevole della Seconda Guerra.
Lui che fu ufficiale degli alpini e partecipò alla ritirata di Russia; lui che, tornato nella sua Cuneo, dopo l’armistizio del 1943, fondò presso la Borgata Paraloup la “1° Compagnia Rivendicazione Caduti”, la prima piccola banda partigiana in onore di tutti quegli alpini perduti tra le gelide pianure russe. Nuto, infatti, divenne partigiano solo dopo aver combattuto per l’esercito del Duce e dopo aver posato il proprio sguardo di ventenne sui compagni interrotti da una guerra che nessuno più capiva e che appariva lucidamente crudele ed insensata nelle sue striature di dolore.
L’azione partigiana di Revelli e i suoi conseguenti scritti sul “mondo dei vinti” non furono animati da alcuna consapevolezza politica, ma al contrario da un desiderio impellente di distruggere qualunque totalitarismo, qualsiasi disuguaglianza o abuso della libertà altrui.
Ecco allora che, approcciandosi alle parole di Nuto e alle ultime lettere dei condannati a morte da lui recuperate, ci si accorge che i pensieri di un tempo lontano non sono affatto diversi dalle speranze che nutre la generazione contemporanea.
Paolo Lomasto, 17 anni, partigiano, fucilato nel giugno 1944: “Carissima mamma, ti scrivo queste mie ultime parole dalla cella dove ho trascorso le mie ultime ore contento, rassegnandomi a morire pensando a te e al mio piccolo nipotino e alla mia sorellina; quando tornerai alla nostra bella Napoli mi bacerai tanto papà e gli dirai che sono morto per l’Italia”.
Irma Marchiani, 33 anni, casalinga, fucilata: “Ho sentito il richiamo della Patria per la quale ho combattuto, ora sono qui… fra poco non sarò più, muoio sicura di aver fatto quanto mi era possibile affinché la libertà trionfasse”.
Giordano Cavestro, 18 anni, studente di scuola media, fucilato nel maggio 1944: “Io muoio, ma l’idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e bella. Siamo alla fine di tutti i mali. Se vivrete, tocca a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care. La mia giovinezza è spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio. Sui nostri corpi si farà il grande faro della Libertà”.
Parole che evocano il dolore, ma che sottolineano la convinzione di aver agito per il bene più grande e per il futuro del mondo.
E quindi bisogna leggere, empatizzare, ricordare: c’è un’urgenza estrema di saperlo, che il 25 aprile è il culmine degli ideali di quegli uomini, di quelle donne, di quei ragazzi sono rimasti tali, bloccati nel tempo, mentre i loro figli, invecchiando, ne hanno perso memoria.
“Sono un partigiano, non un ex partigiano”, diceva Nuto Revelli; perché la Resistenza, l’essere partigiano non sono concetti legati alla contingenza storica, ma sono il valore di chi non si arrende e lotta tenacemente per la libertà.
di Lucrezia Varrella
TRATTO DA MAGAZINE INFORMARE N°204
APRILE 2020